Le tutele per i lavoratori sono maggiori dopo che l’articolo 18 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo e sono aumentate le ipotesi in cui è prevista la reintegra nel posto di lavoro
La tutela reale attenuata
La legge 92/2012 (riforma Fornero) era stata adottata dal legislatore con l’obiettivo di adeguare la disciplina dei licenziamenti «alle esigenze del mutato contesto di riferimento» e di ridistribuire «in modo più equo le tutele per l’impiego», accordando ai lavoratori destinatari di un licenziamento illegittimo un sistema apparato di tutele diversificato in ragione della maggiore o minore gravità del vizio rilevato.
Per effetto di tale riforma, pertanto, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori prevede ora quattro distinti regimi di tutela in caso di licenziamento illegittimo, ordinati secondo la gravità della condotta datoriale: la tutela reale piena, la tutela reale attenuata, la tutela obbligatoria piena e la tutela obbligatoria attenuata.
Gli interventi della Corte costituzionale hanno inciso sul regime di tutela reale attenuata, disciplinato dai commi 4 e 7 dell’articolo 18.
Ai fini che ci occupano, allora, si ricorda che la tutela reale attenuata comporta:
- l’annullamento del licenziamento e la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro;
- la corresponsione di un’indennità risarcitoria, commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento alla reintegra, fino a un massimo di 12 mensilità, dedotto quanto il lavoratore ha percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative o quanto avrebbe potuto percepire se si fosse diligentemente dedicato alla ricerca di un’occupazione;
- il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione.
Secondo la norma in commento, il regime di tutela reale attenuata si applica se il giudice accerta che:
- non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro perché il fatto contestato non sussiste;
- il fatto contestato rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili;
- difetta la giustificazione del licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore;
- il licenziamento è stato intimato in violazione delle previsioni che regolano il licenziamento per superamento del periodo di comporto.
Infine, prima dei recenti interventi della Corte costituzionale che saranno analizzati, il comma 7 dell’articolo 18 prevedeva la possibilità per il giudice di applicare la tutela reale attenuata anche nell’ipotesi in cui avesse accertato la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Sent. n. 59/2021: se non sussistono i fatti posti a base del licenziamento economico, la reintegra è obbligatoria
Il quadro muta con la sentenza n. 59 del 24 febbraio 2021, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18, comma 7, l. 300/1970, nella parte in cui con la dizione “può altresì applicare” consente, ma non obbliga, il giudice che accerti la manifesta insussistenza del fatto, a disporre la reintegra del lavoratore ai sensi del comma 4 (cd. tutela reale attenuata).
Questo comporta che, in caso di manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento “economico”, la reintegra nel posto di lavoro non ha più natura meramente facoltativa, ma diventa una conseguenza dovuta ed automatica conseguente all’accertamento giudiziale.
L’intervento della Corte Costituzionale si era reso necessario per impedire la violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. dal momento che, al contrario di quando previsto per i licenziamenti economici, in caso di insussistenza del fatto nei licenziamenti disciplinari la reintegra era sempre obbligatoria.
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Sentenza n. 125/2022: l’insussistenza del fatto contestato non deve essere necessariamente “manifesta”
I contorni del comma 7 dell’articolo 18 sono stati ulteriormente modificati con sentenza n. 125 del 7 aprile 2022, depositata il 19 maggio 2022, con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18, comma 7, l. 300/1970, limitatamente alla parola “manifesta”.
Per effetto di tale pronuncia, quindi, la tutela reintegratoria opera, come visto sopra, obbligatoriamente tutte le volte in cui il fatto posto alla base del licenziamento economico non sussiste, senza che sia necessario indagare in relazione al carattere manifesto o meno della sua insussistenza.
Per la Corte, il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto è dunque un requisito indeterminato ed irragionevole, il cui materiale accertamento si presta a incertezze applicative che possono condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento.
A ciò si aggiunge, che il presupposto censurato non ha alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento intimato, dal momento che non può considerarsi più grave l’atto risolutorio del rapporto di lavoro solamente perché l’insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio.
Da ultimo, la Corte rileva che la disposizione censurata si riflette sul processo e ne complica taluni passaggi perché, oltre al complesso accertamento della sussistenza o insussistenza del fatto, richiede l’ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell’eventuale insussistenza, vanificando l’obiettivo della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni che la riforma del 2012 si prefiggeva.
L’assoluta residualità della tutela indennitaria.
Per effetto della pronuncia in commento deve quindi considerarsi definitivamente venuto meno il rilievo processuale e sostanziale dell’accertamento del carattere manifesto dell’insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento, con la conseguenza che ogni qualvolta non venga dimostrata la sussistenza del motivo oggettivo, il lavoratore avrà diritto alla reintegra in servizio.
È quindi evidente che l’ambito di applicazione della tutela indennitaria cd. piena, come originariamente delineato dal legislatore, sia oggi limitato ad ipotesi del tutto residuali, ravvisabili secondo quanto prospettato dalla stessa Consulta nelle ipotesi in cui il licenziamento è dichiarato illegittimo per aspetti che esulano dal fatto giuridicamente rilevante, inteso in senso stretto.
È questo, ad esempio, il caso di violazione delle clausole di correttezza e buona fede nella scelta del lavoratore quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile ovvero dei criteri di scelta individuati dal legislatore per le ipotesi di licenziamento collettivo e recepite dalla giurisprudenza nel licenziamento individuale.
L’ambito di applicazione dell’articolo 18
In chiusura, è bene ricordare che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori si applica solamente a determinate categorie di lavoratori ingiustamente licenziati.
Le tutele dell’art. 18, infatti, possono essere invocate solamente dai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015. I rapporti di lavoro sorti in un momento successivo, infatti, sono disciplinati dal c.d. Jobs Act – il d.lgs. n. 23/2015 – e seguono la normativa prevista per le c.d. tutele crescenti.
Oltre a ciò, l’articolo 18 si applica anche a chi è stato assunto prima del 7 marzo 2015 se il datore di lavoro, in seguito a nuove assunzioni, ha raggiunto le soglie dimensionali previste dall’articolo 18 stesso dopo l’entrata in vigore del Jobs Act (ossia l’unità produttiva conti più di 15 lavoratori o 5 in caso di impresa agricola oppure i dipendenti totali diventino più di 60).
Infine, l’articolo 18 non si applica, ma trova applicazione il Jobs Act, tutte le volte in cui il rapporto a tempo determinato o un contratto di apprendistato, pur instaurati prima del 7 marzo 2015, vengano convertiti con contratto a tempo indeterminato dopo tale data.
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