Un lavoratore impugna il licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo, chiedendo che ne venga dichiarata la nullità perché fondato sulle medesime ragioni che avevano originato in precedenza un licenziamento collettivo.
Il Tribunale accoglie le sue difese, riconoscendo che il comportamento tenuto dal datore di lavoro era da considerarsi in frode alla legge, perché diretto, attraverso atti di per sé leciti, a conseguire un risultato vietato dalla legge.
Con la sua condotta, infatti, il datore di lavoro aveva eluso le garanzie procedimentali disciplinate dagli artt. 4 e 24 della legge 223/1991 in materia di licenziamenti collettivi.
La Corte d’Appello, adita dal datore di lavoro soccombente, conferma la decisione del primo Giudice e precisa che solo ragioni sopravvenute e diverse rispetto a quelle che aveva fondato il licenziamento collettivo avrebbero potuto legittimare il successivo licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo. Il datore di lavoro ricorre in Cassazione.
Anche la Cassazione qualifica il licenziamento come nullo perché intimato in frode alla legge.
Gli Ermellini spiegano che il datore di lavoro non può, attraverso successivi e ulteriori licenziamenti individuali, modificare le scelte compiute in sede di licenziamento collettivo, con riferimento al numero, alla collocazione aziendale ed ai profili professionali dei lavoratori in esubero. Un successivo licenziamento individuale adottato a breve distanza rispetto al licenziamento collettivo è, infatti, legittimo solamente se si fonda su situazioni di fatto diverse da quelle poste alla base del primo.
Diversamente, la mancata inclusione del lavoratore nella procedura collettiva comporta la successiva impossibilità per il datore di lavoro di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo qualora il recesso risulti fondato sulle medesime ragioni.
Nel caso di specie, la Suprema Corte pone quindi l’accento sulle circostanze che devono considerarsi sintomatiche della condotta elusiva individuando le stesse nella sostanziale sovrapponibilità delle ragioni poste a fondamento della procedura collettiva e di quelle invocate per giustificare il licenziamento individuale, nonché nella prossimità temporale tra i due recessi.
In applicazione di tali principi la Corte di Cassazione ha dunque rigettato il ricorso, confermando la nullità del licenziamento individuale.
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Dalla pronuncia in commento emerge che il licenziamento collettivo produce dei vincoli nelle scelte organizzative del datore di lavoro, che perdurano anche dopo la chiusura della procedura di riduzione del personale. Quando ricorre un’ipotesi di licenziamento collettivo deve, infatti, essere rispettata una procedura ben specifica, delineata dalla legge 223/1991.
Ai sensi di tale norma un licenziamento può qualificarsi come collettivo quando il datore di lavoro, con più di 15 dipendenti, effettui, nell’arco di 120 giorni, almeno 5 licenziamenti nell’unità produttiva oppure in più unità produttive nell’ambito della stessa provincia, a causa della riduzione o trasformazione o cessazione dell’attività o del lavoro.
Se più imprese sono solo formalmente distinte, ma presentano un’unica organizzazione imprenditoriale – ossia un unico centro decisionale – ed utilizzano contemporaneamente le prestazioni degli stessi lavoratori, i requisiti occupazionali (più di 15 dipendenti) e qualitativi devono essere riferiti all’unico complesso aziendale costituito da dette imprese, con conseguente obbligo di rispetto della procedura. Scopo della procedura delineata dal legislatore è quello di aumentare le tutele dei lavoratori attraverso il coinvolgimento dei sindacati.
Il datore di lavoro che intende procedere con il licenziamento collettivo, infatti, deve darne comunicazione preventiva alle RSA e alle associazioni di categoria. Se la comunicazione non avviene, ricorre un vizio procedurale che, però, non implica la reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro, bensì il diritto a un’indennità risarcitoria tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La procedura di riduzione del personale si articola in due fasi: una c.d. sindacale e una c.d. amministrativa, nel corso delle quali il datore di lavoro e le parti sociali tentano, dapprima tra loro e poi eventualmente con la mediazione del soggetto pubblico, di trovare soluzioni alternative al licenziamento dei lavoratori, individuando in difetto i criteri da applicare per la scelta dei lavoratori in esubero.
A tale proposito, i criteri da adottare nella scelta dei lavoratori da licenziare si differenziano a seconda che sia stato raggiunto o meno un accordo sindacale.
Nel primo caso vengono concordati con i sindacati sulla base delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Tale soluzione presenta, dal punto di vista datoriale, l’ulteriore vantaggio di non richiedere il versamento del contributo di recesso (altrimenti dovuto) e la possibile adesione dei lavoratori interessati all’intesa raggiunta con le parti sociali, con conseguente rinuncia all’impugnazione del licenziamento.
Se l’accordo non viene raggiunto, i criteri di scelta dei lavoratori in esubero sono previsti dalla legge e sono,
in concorso tra loro:
a) i carichi di famiglia;
b) l’anzianità di sevizio;
c) le esigenze tecnico-produttive ed organizzative.
La violazione dei criteri di scelta, siano essi stabiliti nell’accordo sindacale ovvero previsti dalla legge, comporta il diritto del lavoratore licenziato alla c.d. tutela reintegratoria affievolita di cui all’art. 18 co. 4 Statuto dei lavoratori, con diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e alla corresponsione di una indennità risarcitoria fino ad un massimo di 12 mensilità.
In alternativa alla reintegra, entro 30 giorni dall’invito a riprendere servizio, il lavoratore può richiedere il pagamento a titolo di indennità sostitutiva, di un importo corrispondente a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto non assoggettata a contribuzione previdenziale.
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